Alla ricerca della mia Palestina

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Un ritorno breve e intenso. Una toccata e fuga in Palestina. Una carrellata, un Bignami, una maratona di incontri e di testimonianze. Una settimana di ferie fisicamente distruttiva con un piccolo gruppo di persone interessate a capire la situazione palestinese. Questo e tanto altro è stato il viaggio “Tutti a Raccolta” che anche quest’anno sono riuscita ad accompagnare. Partenza o ritorno? Difficile capirlo. La Palestina mi fa sempre questo strano effetto. Mi stordisce. Mi disorienta. Mi fa perdere la cognizione spazio-temporale. Uno stacco dal presente, dalla frenetica routine veneziana. E un tuffo nel passato, nella mia vita di due anni fa, che ora mi sembra così lontana e distante.

Nessuna emozione forte, nessuna commozione. Nemmeno quando riabbraccio i miei amici o quando rivivo l’apartheid sulla mia pelle camminando per la deserta Shuhada Street. O quando la mattina all’alba sento le urla disperate dei lavoratori in attesa che aprano le gabbie. Negli occhi dei miei compagni di viaggio, che osservano impotenti, vedo proprio quell’angoscia e quello sgomento misti a rabbia e a incredulità che avevo provato io la prima volta che mi si era presentata davanti quella scena bestiale. Ora però rimango impassibile, come una roccia, come se ne fossi anestetizzata. Si tratta di abitudine? Di poca sensibilità?

Parlo, racconto. Come una macchinetta impazzita, non riesco a tacere. Forse è questo il mio modo per sfogare la rabbia. Descrivo l’area che stiamo attraversando, la storia del villaggio che abbiamo appena visto, parlo dell’apartheid sulle strade, dei posti di blocco, della continua e inarrestabile confisca di terre e di fonti idriche, delle enormi colonie che ci sovrastano. Parlo, senza sosta. Devo farlo.

Cerco di dare voce a chi viene zittito dai megafoni della propaganda occidentale e della narrativa sionista. Parlo con gli autisti, con i tassisti, voglio che siano loro i protagonisti, e noi i depositari, i messaggeri delle loro storie. Traduco, per quanto posso. Che le voci dei palestinesi non rimangano solo dolci suoni incomprensibili. Ma che diventino insegnamenti, scuola di vita. Messaggi per un occidente addormentato e intorpidito che troppo spesso scorda i valori importanti dell’esistenza, per una parte di mondo dove la natura umana pare assoggettata ai folli ritmi del capitalismo in una insensata corsa per il potere, la visibilità, la carriera.

Storie di vita, storie di resistenza. I racconti di Shirin, di Wissam, di Abu Nidal e di tutti quei palestinesi incontrati durante il viaggio ci parlano di arresti, di sofferenza, di morte, di diritti negati, calpestati e violati nell’indifferenza, o peggio, nella complicità della comunità internazionale. Ma dalle loro storie impariamo la dignità, la forza, la resilienza, quella proprietà, caratteristica degli alberi di ulivo, di flettersi ma di non spezzarsi. Impariamo la resistenza del popolo palestinese. Che, nonostante tutto, continua a esistere, a sorridere, a sognare, a fare figli, ad avere una speranza per il futuro.

Ci lasciamo cullare dai ritmi palestinesi, ci immergiamo nella loro realtà, usiamo i loro mezzi, ci adattiamo ai loro tempi, alle loro attese, ai loro “cinque minuti”. Aspettiamo, ridiamo, mangiamo, scherziamo, ci commuoviamo con loro. Sono finalmente tornata a casa, mi sento libera, sciolta, senza vincoli. Lascio che la mia parte più irrazionale, casinista, disorganizzata e spontanea abbia sfogo senza costrizioni. Mi muovo disinvolta e spensierata in un ambiente che mi è familiare, che conosco in ogni dettaglio. Sono a mio agio, molto di più di quanto sia mai riuscita ad esserlo a Venezia. Forse perchè alla fine, di Venezia, nonostante sia la mia città natale, conosco molto meno.

La Palestina è una tappa, uno stadio della vita. Per qualcuno dura una settimana, per altri una vita intera. La mia è durata due anni. E so bene che a vivere non ci tornerò. Almeno non in Cisgiordania. Questa fase per ora è finita. Sono tornata stanca e spossata, non solo fisicamente. Ma sono stata contenta di tornare. Ora la mia vita è qui, a Venezia, ed è forse ora che comincia la missione più difficile. Trovare la mia Palestina in Italia. Fare informazione, combattere la narrativa mainstream, raccontare, denunciare, urlare. Perchè chi ha visto, non può non parlare, non può non farsi testimone della verità. Ma anche vincere l’indifferenza, il disinteresse, la mediocrità, il qualunquismo, lottare contro la disillusione, il menefreghismo, l’individualismo e la corruzione morale e culturale, impegnarsi nella propria realtà per cercare di cambiare le cose.

Io, per ora, un pezzo della mia Palestina penso di averlo trovato. Ed è una Palestina che mi sta aiutando a conciliare e a riunificare le mie molteplici identità che troppo spesso fanno fatica a convivere nella stessa realtà. Lavoro in un centro per richiedenti asilo e rifugiati. Lavoro, non sono accolta. Sempre bene specificarlo. Ascolto storie, traduco, cerco di fare da ponte tra mondi diversi, di comprendere lo spaesamento e la paura che tante volte si legge negli occhi dei migranti. Quella paura, che anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo vissuto quando ci siamo trovati soli in un mondo che non sapevamo interpretare. Forse questo mi sta aiutando a far convivere identità che fino a poco tempo fa stridevano nel mio mondo interiore.

E forse, proprio per questo, mi piace così tanto accompagnare i gruppi. Perchè oltre a raccontare, a urlare, a denunciare riesco a far raccontare, a far urlare, a far denunciare. E anche perchè parlare di Palestina significa anche parlare di me, della mia vita, raccontare il mio passato per comprendere il mio presente. In questo modo riesco anche a sentirmi meno impotente. E forse proprio per questo provo meno rabbia, meno frustrazione, meno angoscia.

Quand’è la prossima partenza?

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